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giovedì 26 maggio 2011

LA PRESCRIZIONE OFF LABEL DEI FARMACI

L’argomento delle responsabilità professionali dei sanitari derivanti dalla prescrizione di farmaci off label, ossia in maniera non conforme a quanto prescritto nelle schede tecniche autorizzate dal Ministero della Salutecostituisce una questione ancora in gran parte inesplorata dalla dottrina e dalla giurisprudenza. L'argomento, piuttosto complesso, meriterebbe un'analisi sicuramente più approfondita di quella che permette la struttura di un blog, cercherò, comunque, di mettere in evidenza gli aspetti principali.
La scelta di usare un farmaco off label spetta al medico curante, che, sulla base di documentazione scientifica pubblicata su riviste qualificate e indicizzate e sotto la sua diretta responsabilità, dopo aver informato il paziente e ottenuto il consenso, può decidere di trattare il proprio assistito con un medicinale prodotto per una indicazione terapeutica o modalità di somministrazione diverse da quelle registrate. In questo caso deve essere accertato che il paziente non poteva essere  trattato con medicinali per i quali quella indicazione terapeutica o modalità di somministrazione fossero state già approvate.
Sul punto, rileva quanto argomentato dal Giudice del Tribunale di Pistoia (sentenza 24.11.2005 – 20.1.2006)  che ha evidenziato come la libertà di cura sia uno degli aspetti qualificanti della professione del medico: questi deve poter scegliere la migliore terapia, secondo scienza e coscienza e, di per sé, l’uso di un farmaco off label – per finalità non previste dalla sua autorizzazione non è vietato né dalla legge né tanto meno dal Codice deontologico, purché vengano rispettati alcuni criteri fondamentali:
- Efficacia documentata: occorre che l’efficacia del farmaco e la sua tollerabilità siano documentate (requisito richiesto dall’articolo 12 del Codice deontologico e anche dall’articolo 3 legge numero 94 del 1998, la cosiddetta «legge Di Bella »).
- Dovere di informazione: occorre che il medico informi dettagliatamente e compiutamente dei costi e dei benefici della terapia scelta il paziente e che questi fornisca il proprio consenso scritto a farla.
- Nessuna alternativa: non devono esistere sul mercato altri farmaci con efficacia documentata in relazione alla patologia oggetto di cura.
- Dovere di controllo
: il sanitario, che somministra il farmaco ha il dovere di monitorarne gli effetti.
Sicurezza per il paziente, consenso informato (tanto più necessario quanto maggiori sono i rischi connessi all’assunzione del farmaco) e responsabilità del medico sono, quindi, gli elementi principali della prescrizione off label dei farmaci. E' importante che il medico nell’ottenere il consenso del paziente spieghi in dettaglio la ratiodella terapia off label, il rischio dei possibili eventi avversi, e i dati di efficacia disponibili per l’impiegooff label del farmaco che si intende somministrare.
Ricordando, da ultimo, che il medico è l'unico diretto responsabile della prescrizione off label dei farmaci, responsabilità che può essere di natura amministrativa-disciplinare, civile e penale.

Ad maiora


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AI FINI DELLA RESPONSABILITA' DEL MEDICO LA DIFETTOSA TENUTA DELLA CARTELLA CLINICA PUÒ ESSERE UTILIZZATA COME ELEMENTO DI PRESUNZIONE

La Suprema Corte di Cassazione, Terza Sezione Civile, con la sentenza n.10060 del 27 aprile 2010, ha ribadito che in tema di responsabilità professionale del medico la difettosa tenuta della cartella clinica non vale ad escludere la sussistenza del nesso eziologico tra la condotta colposa del sanitario e il danno, ove risulti provata la idoneità di tale condotta a provocare il danno stesso.
La giurisprudenza ha affermato che la sussistenza del nesso eziologico tra la patologia accertata dal medico, verosimilmente idonea a cagionare un pregiudizio al paziente, e il pregiudizio stesso, si deve presumere allorché sia impossibile accertare e valutare altri ipotetici fattori causali proprio in conseguenza della lacunosa compilazione della cartella clinica.
In questo quadro relativo alla distribuzione dell'onere probatorio assume rilievo il criterio della "vicinanza della prova" che, nel caso di specie, è riferibile al sanitario in quanto soggetto che ha la effettiva possibilità di fornire la prova stessa.

Ad maiora


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lunedì 9 maggio 2011

IL DIRITTO AL CONSENSO INFORMATO DEL MALATO TUTELATO DAL PRINCIPIO SUPREMO DELLA DIGNITA' UMANA

Con la recente sentenza n.7237 del 30 marzo 2011, la Suprema Corte di Cassazione, Terza Sezione Civile, ha affermato che il diritto al consenso informato del malato costituisce uno degli aspetti dell'inviolabile diritto alla libertà personale.
In virtù, infatti, del carattere prescrittivo degli articoli 2, 3 e 32 della Costituzione, rafforzati dagli articoli 1-5 della Carta di Nizza, si proclamano la inviolabilità della dignità umana, il diritto alla integrità fisica e psichica con alcune specificazioni relative alle applicazioni della medicina e della biologia.
Alla luce, dunque, delle norme costituzionali, gli interventi sul corpo del paziente obbligano lo Stato e le sue istituzioni a mantenere al centro la dimensione della persona umana, in quanto la sua dignità è la base dei diritti fondamentali, senza il quale essi potrebbero essere soggetti a limiti e svilire ogni loro incisività. Ne consegue l'obbligo del consenso informato del malato che attiene alla sua dignità.

Ad maiora


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L'INDENNITA' DI RISCHIO RADIOLOGICO NON E' DOVUTA SE VIENE MENO IL PERICOLO

La Suprema Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con la recente sentenza n.4525 del 24 febbraio 2011, ha rilevato che l'indennità di rischio radiologico assolve ad una funzione di prevenzione, rappresentando un concorso nelle spese che l'operatore sanitario deve affrontare a scopo profilattico e terapeutico al fine di ridurre i rischi da esposizione.
Una tale indennità non è dovuta, quindi, quando venga meno l'esposizione al rischio del lavoratore per significativi periodi di tempo. Sostengono, infatti, i giudici della Suprema Corte, che l'indennità di rischio radiologico, in quanto indennità connessa a specifiche situazioni ambientali, sia dovuta solo in presenza dei particolari rischi che la stessa è diretta a prevenire, mentre non è motivata quando cessano tali condizioni per apprezzabili periodi di tempo.
Pertanto, concludono i giudici di legittimità, non è dovuta in caso di mancato svolgimento dell'attività lavorativa nelle condizioni di rischio previste dalla legge e dalla contrattazione collettiva per un notevole intervallo temporale.

Ad maiora


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giovedì 14 aprile 2011

Il TAR del Lazio ha rimesso la mediazione alla Corte Costituzionale ritenendo rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del d.lgs. 28/2010

Qualche giorno fa sul blog avevo pubblicato un post nel quale sollevavo alcuni dubbi sulla costituzionalità della normativa, ossia il d.lgs. n.28/2010, che disciplina la c.d. media conciliazione, introducendo l'obbligo per i cittadini di esperire, a proprie spese e quale condizione per poter procedere alla instaurazione della causa davanti al Giudice, una preventiva procedura di mediazione.

Ebbene, con l'Ordinanza n.3202 depositata il 12 aprile 2011 il T.A.R. del Lazio ha dichiarato rilevante e non manifestamente infondata, in relazione agli artt. 24 e 77 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5 del d. lgs. n. 28 del 2010, comma 1, primo periodo (che introduce a carico di chi intende esercitare in giudizio un’azione relativa alle controversie nelle materie espressamente elencate l’obbligo del previo esperimento del procedimento di mediazione), secondo periodo (che prevede che l’esperimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale), terzo periodo (che dispone che l’improcedibilità deve essere eccepita dal convenuto o rilevata d’ufficio dal giudice).

Altresì, ha dichiarato rilevante e non manifestamente infondata, in relazione agli artt. 24 e 77 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 16 del d. lgs. n. 28 del 2010, comma 1, laddove dispone che abilitati a costituire organismi deputati, su istanza della parte interessata, a gestire il procedimento di mediazione sono gli enti pubblici e privati, che diano garanzie di serietà ed efficienza.

Pertanto, ha disposto la sospensione del giudizio e ordinato l’immediata trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale.

Vi terrò aggiornati sui futuri provvedimenti, ritenendo sin d'ora che a prevalere sarà sicuramente la tutela dei principi costituzionalmente garantiti.

Ad maiora


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martedì 29 marzo 2011

La contestazione disciplinare per un presunto "ammanco di cassa" non giustifica il licenziamento per "furto in azienda"

La Corte di Cassazione, con la recentissima sentenza n.6499 del 22 marzo 2011, ha esaminato il caso di un lavoratore sottoposto a procedimento disciplinare per un presunto "ammanco" di un certo quantitativo di merce semilavorata in oro (per i più pignoli 618,60 grammi di merce semilavorata in oro tit.750) che avrebbe dovuto essere conservata in una cassetta di sicurezza di cui egli aveva la chiave. La procedura disciplinare si concludeva con il licenziamento del dipendente stante, come riportato nella relativa comunicazione, la violazione dell'art.23 lettera B.b. del ccnl applicato al caso di specie, che contempla l'ipotesi del "furto in azienda". Il lavoratore impugnava, quindi, il licenziamento sostenendo che la norma richiamata dalla società riguardava, appunto, il caso di "furto in azienda", mentre la contestazione riferiva ad una, a suo dire, differente ipotesi ossia un "ammanco". Pertanto, oltre alla genericità della contestazione, il licenziamento doveva ritenersi illegittimo per violazione del principio di immutabilità della contestazione.
La Suprema Corte, dunque, ha rilevato che la comunicazione di addebito riguardava l'ipotesi dell'ammanco e non già quella distina, e posta a fondamento del licenziamento, di "furto in azienda". Ebbene, l'immutabilità della contestazione impedisce al datore di lavoro di far valere, a sostegno della legittimità del licenziamento disciplinare, circostanze nuove rispetto a quelle contestate, tali da implicare una diversa valutazione dell'infrazione disciplinare, dovendosi garantire l'effettivo esercizio del diritto di difesa al lavoratore.
La possibilità di apportare delle modifiche, infatti, può riguardare solo circostanze non significative rispetto alla fattispecie contestata e così quando tali modificazioni non configurino elementi integrativi di una diversa fattispecie di illecito disciplinare e non comportino, dunque, un pregiudizio alla difesa del lavoratore.



Ad maiora


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La giusta causa di licenziamento deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro

La Suprema Corte di Cassazione, con la recente sentenza n.3596 del 14 febbraio 2011, ha ribadito che la giusta causa di licenziamento richiede la grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro, ed in particolare, la violazione del vincolo fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore. In tale contesto è necessario, dunque, valutare da un lato la gravità dei fatti contestati al lavoratore, in relazione alla loro portata oggettiva e soggettiva, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e alla intensità dell'elemento intenzionale, dall'altro la proporzionalità tra tali fatti e la sanzione applicata. Spetterà, dunque, al giudice, all'esito di una simile valutazione, stabilire se la lesione del vincolo fiduciario su cui si basa il rapporto datore-lavoratore sia tale o meno da motivare l'adozione della misura disciplinare espulsiva.


Ad maiora


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giovedì 24 marzo 2011

Il lavoratore che si rifiuti di eseguire una delle prestazioni lavorative può incorrere in sanzioni disciplinari

Il caso esaminato dalla Suprema Corte, Sezione lavoro, con la sentenza n.547 del 12 gennaio 2011, ha ad oggetto la mancata esecuzione della prestazione lavorativa di alcuni portalettere dipendenti delle Poste Italiane. Quest'ultima società, infatti, e le organizzazioni firmatarie del contratto collettivo nazionale, sottoscrissero, il 29 luglio 2004, un accordo che prevedeva la possibilità per l'azienda di chiedere ai portalettere maggiori prestazioni per la sostituzione di colleghi assenti, a condizione che questi ultimi, sebbene appartenenti ad una diversa zona di assegnazione, rientrassero nella medesima "area territoriale", con la corresponsione di un importo complessivo di 35 euro da ripartire tra coloro che avessero partecipato alla sostituzione del collega assente. L'accordo venne, dunque, contestato dal Cobas di Genova, che proclamò un'astensione dalle sole prestazioni aggiuntive. Pertanto, alcuni lavoratori, seguendo le indicazioni del Cobas, si rifiutarono di eseguire le prestazioni aggiuntive, ricevendo, per tale ragione, provvedimenti disciplinari sanzionatori da parte dell'azienda,  i quali furono, immediatamente, impugnati dal Cobas per violazione dell'art.28 dello Statuto dei Lavoratori, in quanto configuranti comportamento antisindacale. Il ricorso del Cobas veniva, tuttavia, respinto sia in primo che in secondo grado.
La Suprema Corte, investita della questione, ha ritenuto, in primo luogo, necessario stabilire se l'astensione dal lavoro oggetto della controversia, rientrasse o meno nel concetto di sciopero. Nel primo caso, infatti, la sanzione disciplinare sarebbe stata illegittima con conseguente violazione dell'art.28 dello Statuto dei Lavoratori, nel caso contrario, invece, il rifiuto della prestazione avrebbe costituito un inadempimento parziale degli obblighi contrattuali e l'applicazione della sanzione si sarebbe dovuta ritenere legittima.
La Corte ha, dunque, osservato che, non esistendo una definizione legislativa dello sciopero, quest'ultimo, nei fatti, si risolve in una astensione in forma collettiva dalla prestazione lavorativa, per una determinata unità di tempo, con corrispondente perdita della relativa retribuzione.
Non costituisce, invece, una forma di sciopero, e dunque ci si trova al di fuori del relativo diritto, il rifiuto, non integrale, ma che si risolva nella mancata esecuzione di uno o più tra i compiti che il lavoratore deve svolgere.
Conseguentemente, il rifuto di effettuare la consegna di una parte della corrispondenza di competenza del collega assegnatario di altra zona della medesima area territoriale, in violazione dell'obbligo di sostituzione previsto dal contratto collettivo, non può ritenersi una forma di sciopero, bensì rifiuto di eseguire una delle prestazioni dovute. 
La Corte ha, dunque, concluso che l'astensione non può essere qualificata sciopero, costituendo un mero inadempimento parziale della prestazione dovuta, di consguenza la sanzione disciplinare non deve ritenersi illegittima né il comportamento datoriale antisindacale.


Ad maiora


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Incorre nel reato di estorsione il datore di lavoro che obbliga i dipendenti con la minaccia di licenziamento a sottoscrivere buste paga con dati non veritieri

Nel caso di specie, la Suprema Corte di Cassazione, Sezione Seconda Penale, con la sentenza n.1284 del 19 gennaio 2011, si è trovata a dover giudicare il caso di un datore di lavoro responsabile di avere minacciato con il licenziamento due lavoratrici sue dipendenti, per costringerle a firmare le buste paga relative ai salari mensili, alla 13a e 14a mensilità, per importi corrispondenti a un orario di lavoro inferiore a quello effettivamente prestato, procurandosi così un ingiusto profitto, con correlativo danno per le medesime.
Ebbene, la Suprema Corte, ritenendo provata la minaccia,  ha ribadito il principio secondo il quale "integra il reato di estorsione la condotta del datore di lavoro che, approfittando della situazione del mercato di lavoro a lui favorevole per la prevalenza dell'offerta sulla domanda, costringa i lavoratori, con la minaccia larvata di licenziamento, ad accettare la corresponsione di trattamenti retributivi deteriori e non adeguati alle prestazioni effettuate, e più in generale condizioni di lavoro contrarie a leggi ed ai contratti collettivi". 
Peraltro, la Corte ha osservato che, non solo, le espressioni adoperate dal datore di lavoro avessero una chiara valenza intimidatoria ma, altresì, che non aveva alcun pregio l'obiezione di ques'utlimo secondo cui le lavoratrici non potevano sentirsi minacciate atteso che si erano rivolte al giudice del lavoro ed al sindacato. 
Ed, infatti, proseguono i giudici "per configurarsi il reato di estorsione è sufficiente che la minaccia sia tale da incutere una coercizione dell'altrui volontà ed a nulla rileva che si verifichi un'effettiva intimidazione del soggetto passivo".
Diventa del tutto irrilevante, dunque, che le parti offese, successivamente e a seguito delle frasi e comportamenti del datore di lavoro, che comunque devono configurare una vera e propria minaccia per il conseguimento di un ingiusto profitto con altrui danno, si siano rivolte al giudice del lavoro per ottenere le loro spettanze.
Ad maiora


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lunedì 21 marzo 2011

Da oggi per chiunque voglia agire in giudizio diventa obbligatoria la preliminare media conciliazione, chiaramente a proprie spese

Da oggi, in virtù di quanto previsto dal D. Lgs. 28/2010, chiunque vorrà proporre una causa in materia di diritti reali, divisioni, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, responsabilità medica, diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari, dovrà, obbligatoriamente, preliminarmente e a proprie spese, esperire un procedimento di mediazione presso gli organismi accreditati dal Ministero di Grazia e Giustizia. Per le cause in materia condominiale e di risarcimento del danno derivante dalla circolazione di veicoli e natanti, l'obbligatorietà della c.d. media conciliazione  entrerà in vigore solo nel 2012. Se, al termine della procedura conciliativa, non si dovesse raggiungere un accordo, la parte interessarata potrà, sostenendo ulteriori spese, agire in giudizio investendo della questione il Tribunale.
Preme sottolineare che le Commissioni Parlamentari, di entrambi gli schieramenti politici, avevano richiesto un rinvio di un anno della entrata in vigore della nuova disciplina, presentando quest'ultima notevoli profili critici nonchè di incostituzionalità, visto che, di fatto, limita l'accesso alla giustizia, aperta a tutti secondo l'Art.24 Costituzione, prevedendo, a seconda del valore della causa, l'obbligo di spendere dai 60 ai 9.200,00 euro, vedi la Tabella A allegata al Regolamento n.180 del 18 ottobre 2010, oltre a 40 euro previsti solo pre presentare la domanda di conciliazione. Per capire meglio, basti pensare a un esempio che spesso ricorre nella pratica, e cioè di un paziente, in età lavorativa, che durante un intervento subisce una gravissima lesione o, peggio, muore per responsabilità del medico. In questi casi le domande di risarcimento  superano il milione di euro. Ebbene, secondo il tariffario della media conciliazione, il paziente o i suoi eredi, prima di avviare la causa in Tribunale, dovranno promuovere la procedura di media conciliazione versando circa 4.000,00, senza i quali, salvo che non si rientri tra le persone aventi diritto al gratuito patrocinio, non si potrà chiedere giustizia.
Ciononostante il Ministro della Giustizia, con un emendamento nel Decreto Mille Proroghe, per il quale è stata chiesta la fiducia e, dunque, blindata l'approvazione, ha ottenuto l'entrata in vigore dal 2011, ad eccezione delle materie specificate in precedenza, per le quali l'efficacia è stata prorogata al 2012. Oltre ai costi, che è bene sapere, non potranno essere recuperati, altro elemento di criticità è costituito dalla preparazione dei conciliatori, i quali non necessariamente dovranno avere una formazione giuridica, potendo ricoprire l'incarico diplomati iscritti a un albo o laureati in 3 anni, anche in materie totalmente diverse da quelle oggetto della mediazione. Altro aspetto controverso è la mancata previsione per le parti di ricorrere obbligatoriamente alla assistenza di un legale nella fase conciliativa. Quest'ultimo aspetto è, piuttosto, delicato perchè potrebbe comportare per la parte più debole, immaginiamo un cittadino sprovveduto al cospetto di una grande impresa o una grossa società, la decisione di accettare delle condizioni di mediazione molto inferiori rispetto a quelle cui avrebbe diritto.
In Europa esiste già da tempo lo strumento della media conciliazione, con lo scopo nobile e condivisibile di ridurre il numero delle cause che bloccano i Tribunali, ma in nessun paese è obbligatoria, coma da oggi in Italia. Sarebbe, dunque, opportuna e auspicabile, come richiesto da più parti e oggetto di istanze e ricorsi al TAR, una revisione della disciplina che contempli, ad esempio, la facoltatività del procedimento di mediazione, in modo da non costituire un ostacolo alla giustizia per i meno abbienti, oppure, l'obbligatorietà di una assistenza tecnica.
In attesa, dunque, di novità, di cui avrete immediata conoscenza, dobbiamo ricordare che da oggi, prima di presentarci davanti al Giudice per chiedere giustizia, dovremo promuovere, a nostre spese, la procedura di media conciliazione davanti agli Organismi accreditati.


Ad maiora


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"Valore probatorio della sentenza penale di patteggiamento nel giudizio civile"

Per stabilire la responsabilità di un lavoratore in sede di procedimento disciplinare, la eventuale sentenza penale di patteggiamento costituisce un importante elemento di prova nel giudizio civile. Così si è espressa la Suprema Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, nella recente sentenza n.4258 del 22 febbraio 2011, con cui ha deciso sulla impugnazione di un licenziamento intimato ad un lavoratore, cassiere di un Istituto di credito, che sottoposto a procedimento penale con l'imputazione di spaccio di stupefacenti, aveva ottenuto l'applicazione della pena mediante patteggiamento. La Banca lo aveva, dunque, licenziato con motivazione riferita al comportamento attribuito al lavoratore in sede penale. Il lavoratore aveva impugnato il licenziamento sostenendo, tra l'altro, che, pur essendo intervenuto il patteggiamento sull'ipotesi di spaccio, egli, in realtà, come risultava dagli atti di indagine, si era limitato a partecipare ad una riunione durante la quale vi era stato un tentativo di consumo di stupefacenti. Ebbene, la Suprema Corte, conformandosi alla propria giurisprudenza, ha ribadito che la sentenza penale di patteggiamento della pena, ex art.444 c.p.p., pur non contenendo un accertamento capace di fare stato nel giudizio civile, costituisce un importante elemento di prova per il giudice di merito il quale, nel caso in cui intenda disconoscere tale efficacia probatoria, ha il dovere di spiegare le ragioni per cui l'imputato avrebbe ammesso una sua insussistente responsabilità, ed il giudice penale abbia prestato fede a tale ammissione.  

 
Ad maiora

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mercoledì 16 marzo 2011

“Il 17 marzo 2011 è un giorno festivo e non di ferie come qualche azienda vorrebbe far credere - occhio pertanto alla busta paga di marzo”


Come tutti voi ben sapete con il Decreto Legge n.5 del 22 febbraio 2011, il 17 marzo 2011 è stato dichiarato giorno festivo, ai sensi degli articoli 2 e 4 della Legge 27 maggio 1949, n.260, che contiene le disposizioni in materia di ricorrenze festive, ed equiparato per gli effetti economici e gli isituti giuridici e contrattuali alla festività soppressa del 4 novembre. Pertanto, il 17 marzo, limitatamente al 2011, agli effetti dell'osservanza dell'orario festivo e del divieto di compiere determinati atti giuridici è stato equiparato a festività quali il giorno dell'Epifania, il 25 aprile anniversario della Liberazione, il 1 maggio festa del lavoro, il giorno di Natale, il giorno 26 Dicembre, ecc.... Pare, tuttavia, che alcune aziende, anche di rilevanza nazionale, stiano aggirando il dettato di legge imponendo ai propri dipendenti il godimento di un giorno di ferie proprio per il 17 marzo. Questa pratica, se mai confermata, potrebbe rivelarsi contraria alla norma di legge e, dunque, illegittima, con conseguente diritto dei lavoratori di rivalersi sul datore di lavoro.
Vigilate, pertanto, con grande attenzione e, qualora, non foste del tutto convinti del comportamento del vostro capo non esitate a richiedere maggiori chiarimenti. Sarò lieto di poter verificare insieme a voi il rispetto delle disposizioni di legge.

Ad maiora

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lunedì 14 marzo 2011

E' TEMPO DI SETTIMANE BIANCHE MA ATTENZIONE CHE ANCHE IN FERIE IL VOSTRO CAPO E' IN AGGUATO

"Durante le ferie il lavoratore deve evitare imprudenze che possano causargli malattie"

Questo è quanto ha stabilito la Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con la recente sentenza n.1699 del 25 gennaio 2011 nel giudicare il caso di un dipendente di un istituto di credito di Pescara, che, in occasione di un viaggio in Madagascar, ha contratto la malaria assentandosi dal lavoro. Non  contento, il lavoratore, successivamente, si è più volte recato in Madagascar dove è stato nuovamente colpito dalla malaria, incorrendo in nuove assenze. Evidentemente non completamente soddisfatto, il dipendente ha, dunque, chiesto alla sua azienda la concessione di un periodo di ferie dal 22 novembre al 7 dicembre 2000, sostenendo di dover prestare cure e assistenza alla madre malata ma, anche in questo periodo, si è recato in Madagascar dove si è, di nuovo, ammalato di malaria. La sua società, dunque, lo ha sottoposto a un procedimento disciplinare, concluso con il licenziamento, addebitandogli tra l'altro di essere affetto da una patologia tale da non impedire lo svolgimento della sua attività e, comunque, causata dall'essersi nuovamente recato in Madagscar. Il lavoratore ha impugnato il licenziamento sino in Cassazione.
Ebbene, la Corte di Cassazione, dando torto al dipendente, ha affermato che il lavoratore, durante le ferie, deve astenersi da comportamenti che possano ledere l'interesse del datore di lavoro alla corretta esecuzione della prestazione lavorativa prevista dal contratto. Pertanto, se è vero che il lavoratore è pienamente libero di decidere come e dove utilizzare il periodo di ferie, altrettanto vero è che, per i principi di buona fede e correttezza, siffatta libertà deve essere coniugata con l'esigenza che le sue scelte non siano lesive dell'interesse del datore di lavoro a ricevere regolarmente la prestazione lavorativa.
Per cui mi raccomando, sciate in libertà ma, fate attenzione, tra uno slalom e una sosta al rifugio, tra un paletto e l'altro a non dimenticare i "principi di buona fede e correttezza", altrimenti al ritorno chi lo sente poi il capo!!!!

Ad maiora




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